L’anno scorso su questa rubrica avevamo raccontato di un giovane allenatore palestinese, Mohammed, che nel campo profughi di Shatila (Beirut, Libano) allenava dei ragazzini sull’unico campo da calcio di cui disponevano (CLICCA QUI per rileggere l'articolo).
In quel pezzo di terra dove l'ingorgo dei palazzi restringe lo spazio vitale per respirare, una ragnatela di fili elettrici ad altezza uomo ha segnato il destino di alcuni residenti, potete immaginare come.
Cosa ne è di quell’unico campo da calcio, di quel giovane allenatore e dei suoi atleti? In Libano è scoppiata la guerra e le bombe di Israele cadono anche su Beirut.
Se dovessimo raccontare la storia oggi per la prima volta la scriveremmo così: “C’era una volta un campo da calcio all’interno del campo profughi palestinese di Shatila, nella capitale del Libano, Beirut. Su questo unico campo si allenavano dei ragazzini palestinesi con Mohammed, un giovane operatore sociale dell’associazione Assumoud, tifoso del Barça, anche lui palestinese e anche lui residente nel campo. Mohammed voleva dare un’opportunità a chi ne ha davvero poche: fare sport. Tra tante difficoltà, Shatila, quel luogo angusto che ospita da decenni generazioni di palestinesi cacciati dalla loro terra, era riuscita finalmente a costituire la sua squadra di calcio composta da bambini e ragazzini tra gli 8 e i 13 anni. Scarpe e divise da comprare, soldi per pagare le ore di allenamento sul campo: quanti problemi da risolvere! Eppure a Shatila due volte a settimana quarantacinque giovanissimi atleti si trovavano con Mohammed per coltivare il sogno di giocare a calcio, magari anche qualche partita in trasferta. Ma a Shatila non si imparava solo a passare o a parare la palla oppure a correre verso la rete per segnare il goal, perché Shatila è un luogo particolare dove se ti accontenti di segnare un goal non hai capito niente. A Shatila lo sport come la scuola sono strumenti di riscatto sociale e popolare perché a Shatila la vita è dura, eccome se è dura!
Mohammed diceva che lo sport ti deve insegnare dei valori che ti serviranno nella vita. Non può ridursi tutto ad alzare una coppa al cielo.
Forse Mohammed non prevedeva che al cielo non si sarebbero alzate coppe ma grida, urla di paura e che il campo si sarebbe svuotato di quei quarantacinque bambini e ragazzini che correvano anche scalzi. Già, perché a Shatila non c’erano sempre scarpe per tutti.
Forse Mohammed non aveva previsto che improvvisamente la gioia di inseguire una palla sarebbe stata spezzata dalle tenebre delle bombe e che quei bambini e ragazzini, a cui era già imposto di crescere rapidamente, adesso si sarebbero trovati a correre più veloci del vento per evacuare verso “zone sicure” che, chissà perché, non sono mai sicure. Gaza insegna.
Mohammed forse non immaginava che avrebbe dovuto interrompere gli allenamenti ma sei mesi fa è stato costretto a farlo. L’unico campo di calcio di Shatila non è più sicuro. Che ne sarà della sua squadra di calcio? Lo decideranno le armi, non quei bambini, né i ragazzini che si davano appuntamento sul campo, non lo deciderà nemmeno Mohammed. Nessuno di loro ha un potere decisionale sulle proprie vite sconvolte e costantemente in pericolo. “Nessun luogo è sicuro qui!”, lo dicono a Gaza e adesso lo dice anche Mohammed.
C’è la guerra e lo sport chiude i battenti. Di quei quarantacinque bambini e ragazzini forse un giorno avremo notizia. Per ora sappiamo che hanno paura e non rincorrono più la palla. Ma sappiamo anche che le loro vite sono in pericolo e che tristemente la comunità internazionale finge solo di volerle salvare."
Dedicato alla squadra di calcio del campo profughi palestinese di Shatila.
Carla Gagliardini
ndr Il titolo originale dell'articolo di Carla Gagliardini era "Guerra allo sport", ma l'algoritmo di Google e dei social non avrebbe accettato la parola "guerra", peccato che non parlarne non risolva il problema.
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