giovedì 28 settembre 2023

Finchè c’è sport, c’è speranza

Finchè c’è sport, c’è speranza
Inizia oggi una collaborazione con Carla Gagliardini su storie di sport diverse da quelle che siamo abituati a riportare.
Non si parla di crono, dell'ultimo modello di scarpa, ma di sport come sopravvivenza, rinascita o speranza. Storie per riflettere, soprattutto in questo momento storico. 

Shatila è il nome del campo profughi che si trova nel comune di Ghobeiri, alla periferia sud di Beirut, capitale del Libano. La sua storia si costruisce sulla disperazione del popolo palestinese costretto a lasciare i propri villaggi in Palestina a partire dal 1948, quando viene proclamato lo Stato di Israele e inizia quella che i palestinesi chiamano Nakba (“catastrofe”). Decine di migliaia di persone trovano rifugio nel confinante Libano.


Il campo viene costruito nel 1949 dalla Croce Rossa Internazionale, per far fronte all’emergenza creatasi da quella fiumana di uomini, donne e bambini in fuga. Da allora, generazioni di palestinesi cercano di sopravvivere sognando il “ritorno” a casa, nelle terre palestinesi che appartenevano ai loro antenati. In un chilometro quadrato di terra, oggi Shatila accoglie circa 20.000 persone, di cui 8.000 palestinesi e altre provenienti dalla Siria e dallo stesso Libano. E’ anche tristemente ricordata per il “massacro di Sabra e Shatila” del 1982, consumato contro i palestinesi.

E’ un luogo dove nessuno vorrebbe vivere perché le condizioni di sovraffollamento, di precario smaltimento dei rifiuti, le strade strette e buie, i fili dell’elettricità sospesi che si intrecciano come ragnatele mortali che hanno ucciso e uccidono persone, la disoccupazione all’80% e la carenza di servizi rendono la vita terribilmente difficile.

Eppure a Shatila si vive, anzi si deve vivere perché non ci sono molte alternative per le tante e i tanti rifugiati palestinesi e siriani, né per quei libanesi in estrema povertà. Così, dovendo fare anche i conti con lo stato libanese che vive sull’orlo del fallimento, che fronteggia continue crisi istituzionali e con un’inflazione dolorosa, Shatila sembra un dramma calato nel dramma.



Ma si sa, nel mondo fortunatamente esistono persone che di fronte alle realtà più difficili si rimboccano le maniche, per restituire un senso di giustizia là dove ce n’è poca e sostenere chi ha ancora tante battaglie da affrontare. Shatila è parte del mondo e ha la solidarietà concreta di uomini come Kassem Aina, 77 anni, alto, gentile e sempre sorridente che, insieme a tante e tanti altri, con l’associazione The National Institution of Social Care and Vocational training Beit Atfal Assumoud, lavora all’interno dei campi profughi in Libano.

L’associazione sostiene la causa palestinese e il diritto al ritorno di questo popolo ma nei campi profughi non fa distinzione tra gli abitanti, non importa la loro provenienza o l’appartenenza religiosa.

Assumoud ha un programma esteso che garantisce alcuni dei servizi essenziali nei campi.

Non sfugge agli operatori dell’associazione l’importanza di rispondere ai bisogni dei bambini e degli adolescenti che vivono in questi luoghi per i quali le opportunità, in tutti gli aspetti della vita, sono ridotte se paragonate a quelle di molti dei loro coetanei che non conoscono la vita dei campi profughi.

Conoscendo la passione per il calcio di Mohammad Abbas, uno dei tanti operatori sociali di Assumoud, l’associazione ha chiesto a questo giovane di ventisei anni, se fosse interessato a costituire una squadra di calcio per i bambini e una per gli adolescenti. Mohammad, palestinese, residente anche lui a Shatila, ha accettato.




L’amore per il calcio è talmente grande che i suoi fine settimana li trascorre con gli amici a guardare i campionati e a discutere di squadre, partite e giocatori. Lui è un tifoso del Barça, come mi dice con un sorriso da vero fan, io invece ci metto un po’ a riconnettermi al calcio e a capire chi sia questo Barça (sic!). Vorrebbe parlarmi di sè e della sua passione sincera per questo sport e sono sicura che se solo gliene dessi la possibilità mi coinvolgerebbe in questo mondo fatto di schemi, strategie, di coppe e supercoppe. Ma io devo riportarlo sul punto del nostro incontro, ossia lo sport nei campi profughi. Si appassiona ugualmente, forse la luce degli occhi cambia perché il calcio di cui parliamo non è quello dei futuri campioni ma di bambini e adolescenti tra gli 8 e i 13 anni che senza la solidarietà, che fortunatamente ancora contraddistingue una parte del genere umano, non potrebbero toccare palla. A un certo punto della nostra conversazione, Mohammad mi interrompe, come se avesse urgenza di darmi un’informazione straordinaria e forse me la dà davvero quando mi dice che alcuni dei suoi piccoli giocatori hanno bisogno di scarpe per giocare. Impensabile dalle nostre parti che un bambino non abbia scarpe da mettersi ai piedi! Mi fa vedere le foto e scopro che non mente, sono davvero giovani piedi che rincorrono una palla solo con dei calzini. Gli chiedo se hanno bisogno delle scarpe con i tacchetti e mi risponde che sarebbe meglio ma non è indispensabile perché, intanto, il terreno è duro. Ok, mi dico, il terreno non sarà dei migliori ma almeno fanno sport in un campo da calcio, fa bene alla salute e fa bene al morale. 

Ma Mohammad, che è sinceramente calato nella sua veste di allenatore, si lamenta perché ancora una volta i suoi atleti sono svantaggiati: il campo è molto più piccolo di un regolare campo da calcio e questo, in termini di preparazione atletica, costituisce un grande ostacolo. Lui vuole preparare le sue due squadre perché possano partecipare al campionato dei campi profughi di Beirut, ma è solo all’inizio, ci vuole ancora del tempo perché possano affrontare quella nuova esperienza. Nell’attesa che quel giorno arrivi, occorre tanto allenamento. Che bello, dico a me stessa, c’è tanta passione che circola libera sul quel campo. Basta tanto allenamento, un antidoto che può aiutare questi giovanissimi a rimuovere alcuni dei molti ostacoli di cui le loro vite sono già costellate. Sono stranamente positiva e penso che, a volte, anche in società intrise di ingiustizia, come quelle che gli uomini al potere hanno costruito un po’ ovunque, non ci vuole tanto per rendere felici le persone. Il campo da calcio sarà piccolo ma almeno c’è. Basta andare ad allenarsi tanto! Sento Mohammad che richiama la mia attenzione e capisco che sono stata troppo ottimista. Ci sono altri ostacoli da superare. Il campo da calcio ha infatti un costo che Mohammad definisce “molto caro”. Mi allarmo, non avevo pensato che un campo da calcio, all’interno di un campo profughi, uno dei pochissimi luoghi in cui si possa fare sport avesse un prezzo e che fosse persino “molto caro”. Penso a quanto potrà essere mai la cifra chiesta dal proprietario ma Mohammad mi precede svelandomi a quanto ammonti la richiesta oraria. Non so se ridere o piangere, so solo che dentro di me corrono mille pensieri, velocissimi, in modo disordinato. Sono sette i dollari all’ora che servono per fare giocare e maturare dei bambini e dei ragazzini che grazie a quel piccolo pezzo di terra dura trovano sfogo per le loro frustrazioni, costruiscono amicizie e si divertono. I suoi atleti sono infatti felici di andare ad allenarsi e gli chiedono in continuazione, incontrandolo per le strade di Shatila, quando potranno fare una vera partita. C’è entusiasmo e Mohammad è soddisfatto perché vede come questi ragazzini, che provengono dalle situazioni familiari più complicate, si siano immersi in questo sport e, grazie a quello che imparano sul campo, stiano migliorando la loro capacità relazionale, un successo che per lui va oltre quello della performance sportiva. Alcuni di loro si sono molto affezionati al loro giovane allenatore e così vanno ad aiutarlo quando allena l’altra squadra e, ogni tanto, lo raggiungono per vederlo quando è lui a ricoprire la veste di giocatore, in allenamento o in partita.




Mohammad è consapevole del ruolo che lo sport può avere nella vita, dei benefici che può portare alla salute mentale e fisica di tutti, bambini e adolescenti inclusi, delle opportunità di inserimento che offre in una società complessa perché, come dice lui, “un giocatore si guadagna il rispetto della gente, anche senza essere un campione”. Ritiene fondamentale che le persone guardino questi ragazzini con uno sguardo accogliente, per quello che sanno esprimere anche grazie allo sport, e non di traverso, considerandoli solo per la loro svantaggiata provenienza sociale.

Sono solo sei mesi che esistono queste due squadre che ad oggi contano complessivamente circa quarantacinque bambini tra gli 8 e i 13 anni. Due volte a settimana, alle otto di sera, vanno ad allenarsi in un campo piccolo, dal terreno duro e “molto caro”, correndo anche senza scarpe purché non gli sia impedito di tirare un calcio a quel pallone. Non mancano mai all’allenamento, anzi, vorrebbero poterne fare di più. Mohammad sogna di poterli allenare ogni giorno da lunedì a giovedì e venerdì fargli sperimentare l’ebrezza della partita. Chissà poi se qualcuno di loro riuscirà a entrare in una squadra libanese e giocare un vero campionato. Se ci sarà questa possibilità, sarà solo per pochi perché le regole della Federazione calcistica libanese consentono la presenza di un solo palestinese per squadra in campo e uno seduto in panchina. Ma Mohammad non è interessato, non è questo il suo obiettivo. Lui pensa che il calcio permetta, attraverso il divertimento, di imparare delle regole che i suoi atleti potranno usare anche nella vita e la gente guarderà a questi ragazzini con rispetto. E poi, mi dice con leggerezza, “se fossi in Italia mi arrabbierei per questa assurda regola che impedisce a noi palestinesi di giocare in massa nelle squadre libanesi, perché voi avete un campionato importante a cui tutti vogliono partecipare. Qui in Libano invece le squadre sono scarse e quindi non importa se non lo giocherai”. Un modo un po’ discutibile di affrontare un’ingiustizia ma, in termini sportivi, forse è comprensibile la sua riluttanza a crearsi un nuovo problema, considerato che il campionato di calcio libanese non è poi così divertente. Parola di Mohammad, un giocatore-allenatore che nello sport sa vedere anche gioia e inclusione.


di Carla Gagliardini











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