venerdì 24 maggio 2024

Un'idea di Sport. Intervista a Valerio Piccioni

Valerio Piccioni, giornalista che, insieme ad altri, ha ideato la Corsa di Miguel, è stato fino al 1 maggio scorso, data del suo pensionamento, una delle penne de La Gazzetta dello SportHa scritto alcuni libri che, anche solo soffermandosi ai titoli (Quando giocava Pasolini, La rivoluzione di Bikila, dedicato al grande maratoneta etiope, Manlio Gelsomini. Campione partigiano, Baci olimpionici Storie d’amore e di medaglie d’oro), danno l’idea della sua ricerca di qualcosa, dentro le storie di sport, che vada oltre la prestazione agonistica.

Questo approccio allo sport che sa guardare in profondità ci interessa e quindi ti chiedo, che cosa intendi per sport?


lo sport è una straordinaria possibilità per conoscere se stessi e le persone vicine e lontane che ti circondano. E’ chiaro che in un meccanismo come quello del mondo attuale e del nostro modo di vivere, la possibilità di conoscersi è, in qualche modo, rara, legata soltanto alla scuola o al lavoro e quindi questa sfera della vita, quella sportiva, diventa decisiva. Abbiamo visto durante il covid quanto abbia pesato la mancanza delle relazioni personali e quanti problemi ne sono derivati.


Mi viene però in mente, pensando alla corsa di Miguel, che lo sport come lo intendi tu vada oltre a quell’intreccio di amicizie e di conoscenze che sicuramente la pratica sportiva sa darti. Nella corsa di Miguel ci leggo qualcosa di più.


Uso il verbo conoscere, naturalmente, in maniera estensiva perché mi riferisco non esclusivamente alla conoscenza di persone ma anche di luoghi, di storie, di realtà. La conoscenza ti aiuta a comprendere molte cose della vita e del mondo. Ti faccio un esempio. Attraverso la corsa di Miguel ho scoperto un’azienda che si occupa di tricicli adattati per ragazzi con disabilità anche gravi. Spesso succede che conosciamo una cosa ma in modo insufficiente, alla lontana. Poi ci avviciniamo a una realtà e ci accorgiamo che in quella storia c'è una ricchezza e una grandissima potenza, perché la conoscenza non riguarda soltanto le persone ma anche le loro problematiche e il mondo circostante che se ne fa carico, la solidarietà insomma, che non voglio caricare di richiami ideologici. Lo sport ha questa doppia dimensione: da una parte cerchi di essere il migliore rispetto a chi ti circonda, vai alla caccia del risultato, quindi in qualche modo vivi lo sport come una competizione, ma al tempo stesso ti rendi conto che attraverso di esso puoi aiutare tutto ciò che sta intorno a te, anche semplicemente con una consapevolezza che spesse volte non hai. Per me questo incontro è stato strepitoso. Ho visto questi tricicli e i ragazzi che li usano, che sembrano essere sostanzialmente molto vicini a uno stato vegetativo e ho capito che invece c’erano molte energie che non mi aspettavo. Ho visto un ragazzino che non riusciva a camminare ma su questo triciclo trovava una sua dimensione. Questo è il bello dello sport.


Una delle cose che odio di più è un certo atteggiamento, anche di colleghi giornalisti, che critica la scelta di far partecipare alle Olimpiadi atleti provenienti da tutto il mondo perché in questo modo si impedisce la partecipazione a tutti quelli che sono realmente i più forti, magari l’americano numero 4, 5 o 10 della graduatoria nazionale e che è indubbiamente più veloce di uno delle isole Samoa. Questo ragionamento è però la negazione dello spirito delle Olimpiadi perché è esattamente questa apertura che consente di conoscere tutti i duecentocinque Paesi. Questa idea di ridurre tutto agli atleti forti è sbagliata, lo sport non è fatto solo da chi vince.


E’ purtroppo un meccanismo che si riproduce nelle scuole, dove gli insegnanti di scienze motorie chiedono quanti studenti possono portare a una gara. Evidentemente sono abituati a quella realtà per cui ogni scuola ha un limite ridotto di studenti che possano partecipare a questi momenti sportivi e spesso capita che a gareggiare siano sempre gli stessi, che poi sovente sono ragazzi e ragazze che hanno anche questa opportunità fuori dalla scuola, grazie alla loro famiglia che li sostiene. Il sistema invece deve essere diverso e deve riuscire a portare davvero tutti alla gara. Su cento studenti, ovviamente, ci sarà quello che non sa neanche che cos’è una pista di atletica. L’insegnante però ha la missione sociale di arrivare a tutti, di portare un valore aggiunto in quello che fa, deve arrivare alla persona che non sa neppure quanto misura una pista ma è lì. Non può pensare unicamente a quei tre o quattro della scuola che già sanno, ad esempio, cos'è l'atletica, proponendogli semplicemente l'ennesima opportunità. In questo modo si aggiunge poco.


Questo elemento dell’inclusività e dell’allargamento è molto significativo rispetto alla domanda madre che mi hai fatta all'inizio. Lo sport è un grande movimento, è come una macchia, nel senso bello del termine, che si allarga sempre di più, che estende sempre più i suoi confini e li porta sempre più in là. Personalmente e lo dico con umiltà, sento addosso il compito di portare lo sport dove non c'è. Penso che la parola sport debba essere riempita da molte più cose, ma a volte l’elemento numerico è un elemento che si mangia tutto.






Lo sport, soprattutto se agonistico, è anche competizione. Come si coniuga questo aspetto con l’idea che hai di sport e cosa c’è di buono e di male nella competizione?


Non voglio sterilizzare la competizione. Naturalmente lo spirito competitivo non lo puoi vivere allo stesso modo se fai le Olimpiadi o se partecipi al campionato studentesco. Anche nella cultura dell'amatore a un certo punto è emersa l'idea di cimentarsi per migliorare. Questo è sacrosanto. Se io faccio una maratona in 3h35’ poi quella successiva è possibile che voglia farla in 3h25’. Questo va bene. Quando però ti accorgi che a sessant’anni ti sbrani per una classifica di categoria, secondo me vengono in luce degli elementi fortemente distorsivi.

Dobbiamo considerare anche che lo spirito competitivo non può nascere all'improvviso. È chiaro che c'è un tempo per tutto. C'è un tempo in cui devi scoprire lo sport e scoprendolo devi poter accedere a degli strumenti per poi, un domani, viverlo sotto forma di competizione. Credo sia importante dare la possibilità ai ragazzini di iniziare uno sport assaporando un'atmosfera, dove hanno un tempo per capire se gli piace. Oggi la sensazione è che non ci sia tempo per questa parte della scoperta, tutto deve avvenire subito e l’unico interesse di molti genitori sembra quello di sapere se il figlio sarà forte.

Lo sport vive anche dei momenti, non vive solo di un meccanismo fatto di tempo investito in funzione di un risultato. Questo può avvenire più tardi ma non quando sei un ragazzino. Dobbiamo riuscire a costruire un modo per cui, quando sei un ragazzino, al di là del risultato, riesci a percepire la bellezza di stare in una piscina, in un campo sportivo insieme ai tuoi compagni, per esempio.

Capisco che è complicato perché la domanda istintiva che tutti fanno a un atleta dopo una gara è: “Quanto hai fatto? Quanto sei arrivato?”. La competizione non può mangiare tutto il nostro immaginario e non lasciare nemmeno le briciole, diventando persino un’ossessione.


La storia della tennista Naomi Osaka ne è un esempio. Divenuta numero uno al mondo quando era giovanissima, improvvisamente è entrata nel tunnel depressivo e si è ritrovata al centosettantatreesimo posto del ranking tennistico. Quest’anno ha giocato a Roma e ha detto: “Mi sento un'altra, ho fatto un percorso e adesso mi sento meglio”. Nonostante fosse precipitata drasticamente nella classifica, sentiva ancora forte il fuoco dentro per continuare a praticare il suo sport. E’ una cosa bellissima, molto più di uno che è numero uno al mondo e ci rimane per tutta la vita.


La competizione porta con sé anche l’idea del “campione”, come colui o colei che vince. E’ questa parola un concetto da salvare nello sport oppure andrebbe sostituita con un’altra o riempita di significato diverso da quello a cui abitualmente ci riferiamo?


Dino Zoff, quando allenava la Lazio e io ne seguivo gli allenamenti, mi disse quale era la differenza per lui tra il fuoriclasse e il campione. Il primo ha un talento assoluto, una classe e dei numeri come se in qualche modo nel DNA fosse scritta la bontà, l’efficacia e la forza della sua prestazione. Il campione invece è colui che sa combinare questo talento che possiede e lo mette a disposizione della squadra, dei compagni e del pubblico con dei comportamenti che non si fermano soltanto al campo e al palcoscenico, ma vanno in giro.

Quindi mi piace pensare che un campione sia colui che sa vivere questa sua condizione di figura talentuosa e importante, mettendola appunto in relazione con il contesto e riesce a trasmettere qualcosa di positivo. Quindi il campione è qualcuno che ha qualcosa da dire.


Un campione, nel senso appena descritto, è Niccolò Campriani, che ha vinto tanto nella sua disciplina, il tiro a segno. Lui dice che “la medaglia non è un fine ma un mezzo”. E’ una frase luminosa e affascinante. Se affermi che la medaglia è un fine sostanzialmente si ferma a casa tua e nel tuo medagliere. Se invece deve essere un mezzo cambia radicalmente prospettiva. Diventa per esempio il mezzo attraverso il quale quello sport possa diffondersi. Campriani è stato coerente e le sue medaglie sono state il mezzo per diffondere il tiro a segno, farlo arrivare dove non c’era. Si è infatti impegnato nella costruzione della famosa Team Refugees, una squadra composta da rifugiati provenienti da diverse parti del mondo che, per la terza volta, sarà la nazionale dei rifugiati ai giochi olimpici. Dopo aver debuttato alle Olimpiadi di Rio de Janeiro e poi aver partecipato a quelle di Tokyo, adesso andrà a Parigi. Sono trentasei tra ragazzi e ragazze che rappresenteranno i rifugiati. Stiamo parlando di persone che non possono ritornare nei propri Paesi perché sono costrette a scappare dalla guerra. Campriani allena alcuni di loro.


La politica, il Coni e le Federazioni hanno un’idea di sport che va verso la direzione che tu immagini oppure no?


Ci sono segnali anche molto diversi tra loro. Rispetto a qualche decennio fa, è sicuramente cresciuta la sensibilità verso l'idea di sport come di un'attività che non può rimanere ristretta soltanto a un gruppo limitato di persone. Sempre di più si afferma l'opinione che si possa correre non necessariamente per vincere ma per sentirsi meglio. Questo orientamento proviene anche dalle pieghe delle istituzioni sportive. Oltre alla FIR (Federazione Italiana Rugby) anche quella della boxe ha dei bellissimi progetti sociali.

Dall'altro lato, però, il mainstream disegna sempre più una scena concentrata sugli elementi prestativi. Quando si parla di Olimpiadi è un racconto molto spesso veramente limitato al podio. Tu sei qualcuno solo se sei salito sul podio. Se sei arrivato quinto o settimo, tutto sommato, non meriti che ci sia una curiosità intorno a te. Secondo me è profondamente sbagliato e su questo anche i mezzi di comunicazione fanno grossi errori.


L'altro elemento che va considerato, secondo me, riguardo al tipo di politica sportiva che si intende fare, è legato alla differenza tra lo slogan o l'annuncio e la realtà.

Noi siamo un Paese che vive di annunci e di slogan e fatichiamo a tradurli in realtà, Dunque annaspiamo quando dobbiamo avvicinare veramente centro e periferia, nord e sud. Questo è il problema drammatico che è ancora completamente da risolvere. Purtroppo è tutta una corsa all'organizzazione dell'evento e del super evento sportivo, come le Olimpiadi. Va bene anche questo, perché sono convinto che ci sia un elemento interessante di emulazione da parte dei giovani che guardano le Olimpiadi e la loro bellezza. Il giorno dopo potrebbero avere voglia di fare sport. Però tutta questa eredità che i grandi eventi sportivi ci lasciano noi la sprechiamo, non la gestiamo come si deve. Per esempio, si sono conclusi da poco gli Internazionali d'Italia di tennis che sono una realtà formidabile. Ma noi sappiamo se un ragazzo, che magari ha visto parlare di questo evento il sindaco di Roma in televisione, potrà poi trovare il campo per giocare o la pista per correre oppure la piscina per nuotare nel suo quartiere? Questo è il tema. Secondo me la vera politica sportiva sarebbe aiutare, anche con piccole cifre e sostegni, la rete di società sportive che sono sui territori e portano quindi lo sport anche fuori dal centro, dove probabilmente l’offerta sportiva è già molto robusta.

Quest'anno abbiamo fatto un’esperienza veramente molto importante a Vibo Valentia, in Calabria. Abbiamo portato la corsa di Miguel cento per mille nelle scuole ma ci siamo trovati in una situazione in cui tre strutture su quattro erano a pezzi o non utilizzabili. Abbiamo allora deciso di realizzare una corsa sul lungomare e l’altra nel centro storico. Ho scattato una foto (in copertina ndr), a cui sono molto affezionato, dove si vedono ragazze di quattordici, quindici e sedici anni vestite in qualche caso in modo non sportivo. La fame, la voglia e il desiderio di sorridere, di provare emozioni e di esserci a quell’evento sono racchiuse in quella foto. Quell’immagine è per me un manifesto programmatico, sono affezionatissimo. Mi dico che a Vibo Valentia abbiamo fatto quello che dobbiamo fare, cioè siamo andati non a casa nostra, dove ci sono quelli che già fanno bene e già fanno sport e ne parlano in famiglia, ma siamo andati proprio dove invece questa parola nelle case non c’è.


Puoi specificare con degli esempi cosa intendi per politica degli annunci?


In Italia abbiamo storicamente un numero alto di strutture che però sono fortemente acciaccate, quindi abbiamo impianti che sono nati ma che non abbiamo poi curato. Un esempio può essere il lascito delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006 che, sicuramente, hanno generato un miglioramento della città, però abbiamo trascurato questi impianti che sono ormai cattedrali nel deserto, tant'è che oggi siamo costretti per le Olimpiadi 2026 a fare un'altra pista di bob ex novo.

Un altro aspetto è la velocità con cui si fanno le cose. A Roma, ad esempio, è stato finalmente rifatto il Palazzetto dello Sport. Tuttavia sono passati sei anni da quando era stato chiuso. Sempre nella capitale abbiamo una concentrazione di impianti di atletica nel quadrante nord, sostanzialmente quello vicino allo Stadio Olimpico, mentre nel quadrante sud, dove vive un milione di persone, c’è una sola struttura. E’ per questo che dico fermiamoci con gli annunci a favore dell’inclusione sportiva e iniziamo a farla per davvero.

Allarghiamo il tema anche agli stadi. Ne vogliono costruire di nuovi per il calcio? Sicuramente è uno sport generatore di emozioni e, in qualche modo, di bene sociale. Dobbiamo provare a fare un'operazione che abbia un vantaggio non solo per il calcio ma anche per le comunità e gli altri sport. Quindi dovremmo costruire intorno a questi anche gli impianti per gli altri sport. A volte la politica sottolinea questa necessità ma poi non è conseguente.


L'Italia è un paese dalle grandi differenze. A Trento e a Bolzano sei ragazzini/e su dieci sopra i tre anni fanno sport mentre in Calabria sono solo due su dieci. Non si tratta di una differenza minima. Per non parlare di Napoli e del suo patrimonio impiantistico molto al di sotto rispetto alla fame di sport che c’è in città.





Com’è la situazione dello sport nelle scuole?


Negli ultimi dieci anni, la politica ha ridotto tantissimo i contributi per lo sport nelle scuole, praticamente erano sessanta milioni di euro e adesso sono circa sedici o diciassette. Per me la figura centrale nello sport è rappresentata dagli insegnanti di scienze motorie. Si deve ripartire da loro. Dobbiamo ascoltarli. Occorre che finiscano gli interventi spot della politica. Si sente molto parlare del rilancio dei Giochi della Gioventù ma questi premiano solo pochi, i migliori delle scuole per disciplina. Io penso a un’altra cosa. Dobbiamo coinvolgere cento ragazzi per scuola. Prenderne così tanti significa fare un avvenimento nella scuola, prepararlo, fare delle selezioni dove veramente potremmo scoprire tanti ragazzi che magari non hanno mai pensato di fare uno sport e potremmo anche accorgerci che qualcuno ha talento oppure che ha dei problemi di salute. Diventerebbe infatti anche un test di salute per loro. Se al contrario continuiamo a pensare a un'altra manifestazione di un centinaio di persone complessivamente, dove non facciamo altro che ridare l'ennesima opportunità a quelli che già praticano dello sport, tutto sommato penso che si possa dire che non ci sia questa grande necessità, perché questi giovani hanno già diverse occasioni di partecipare ad appuntamenti sportivi di livello.

Il discorso cambia se investiamo sulla cultura sportiva della partecipazione che prevede il coinvolgimento di numeri importanti e quindi gli eventi sportivi scolastici non sarebbero più limitati a un centinaio di persone, fra tutti gli istituti, ma sarebbero aperti alla partecipazione di migliaia di loro. In questo modo avremmo raggiunto un numero importante e lo sport si diffonderebbe come una macchia nel senso bello del termine, così come ho detto al principio.

Carla Gagliardini

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