giovedì 23 novembre 2023

La saya afroboliviana. Uno sport? Un ballo? Sicuramente cultura!

Il ballo è arte, folklore e cultura, ma è anche uno sport? Non esiste un’unica corrente di pensiero al riguardo, come era prevedibile. La divisione tra chi sostiene che si debba considerarlo tale e chi invece è contrario, è fortemente marcata.

Lasciando ai lettori e alle lettrici l’approfondimento del tema, se lo riterranno di interesse, tale incertezza lascia però lo spazio a questa rubrica per parlare di un ballo, la saya, che è il frutto di una storia che inizia in Africa e continua in Bolivia.

Nella vita del popolo afroboliviano la saya è l’unico elemento identitario che ancora riesce a tenere insieme il passato con il presente e a irrigare le radici di una storia di popolo che proviene da molto lontano, nello spazio e nel tempo.

Bisogna infatti portare la lancetta del tempo indietro di alcuni secoli e puntare il dito sulla cartina geografica attraversando gli oceani.

Per alcuni quel tempo e quei mari rappresentavano il Nuovo Mondo, terra di conquista e ricchezza, per altri la voglia di spingersi oltre il conosciuto, e per molti la fine della libertà, l’inizio della schiavitù e la povertà assoluta.


In Bolivia gli schiavi sono giunti nel 1535 a Potosì, la città delle miniere a più di 4.000 metri di altura. Hanno lavorato sotto la terra e nella Casa de la Moneda, coniando moneta per i conquistadores. Hanno sofferto un freddo a cui non erano preparati, abituati a vivere nelle terre calde del Congo, della Sierra Leone e dell'Angola*. Molti di loro hanno perso la vita per le condizioni estreme a cui erano forzosamente sottoposti. Il conquistador allora ha preferito fare un “uso” diverso di questa umanità sradicata dalla Madrepatria, trasferendola in una zona più simile a quella di provenienza, ossia nelle calde terre dello Yungas, zona tropicale nel distretto di La Paz. Non è stata certamente la compassione umana a determinare questo spostamento, né un senso di empatia ma molto più semplicemente la necessità di avere contadini che lavorassero gratuitamente per i grandi proprietari terrieri, che coltivavano riso, tabacco, caffè, foglie di coca, zucchero, frutta, yuca, ecc. e donne, che altrettanto gratuitamente, svolgessero faccende domestiche.


La storia degli afroboliviani del XX secolo sembra quasi totalmente sradicata dalla terra d’origine e la perdita della conoscenza e uso della lingua madre ne rappresenta un chiaro esempio. L’assimilazione forzata, navigando tra la cultura dei conquistadores e delle popolazioni originarie, è stata più forte delle tante tradizioni, ormai dimenticate. Solo i “tambores” (tamburi)**, la musica e la danza hanno saputo trovare lo spazio per non far seccare anche l'ultima radice d’Africa. È nata così la saya, che si nutre dei “tambores” africani, creando ritmi e coreografie che sono il risultato di una mescolanza di culture, di cui gli afroboliviani sono un esempio evidente.





La saya simboleggia il lavoro comunitario e tutti gli attori dello spazio lavorativo vengono interpretati, dal proprietario terriero al caporale e, ovviamente, agli schiavi. I costumi indossati sono bianchi con dei gentili ricami, sia per le donne, che indossano ampie gonne che svolazzano ad ogni passo di saya, che per gli uomini. Il ritmo è rapido e allegro perché, nonostante la disperazione in cui erano costretti a vivere, gli afroboliviani hanno mantenuto uno spirito gioioso.








Negli anni ottanta del secolo scorso, la saya si trasforma da danza popolare a strumento di rivendicazioni del popolo afroboliviano, che ha sofferto molto e che è stato lungamente ai margini della società. La nuova Costituzione dello Stato Plurinazionale della Bolivia, entrata in vigore nel 2009, ha riconosciuto agli afroboliviani la stessa dignità e gli stessi diritti dei popoli originari.


La saya è diventata negli anni patrimonio integrante della società boliviana, ma corre il rischio di trasformarsi in un prodotto commerciale. Viene quindi difesa, dagli afrodiscendenti che ne comprendono la ricchezza culturale e sentimentale, dalle trasformazioni già in corso che la allontanano dalle sue origini e, quindi, dal suo significato profondo. Una difesa tanto necessaria quanto prioritaria per non recidere per sempre la radice africana.

di Carla Gagliardini

Note: 

*Paesi di origine della maggioranza degli africani e delle africane forzosamente condotti in Bolivia.

** I “tambores” hanno esercitato un ruolo importante nella comunicazione tra africani e africane forzosamente condotti in Bolivia. Questi infatti erano originari di comunità africane diverse e non parlavano la stessa lingua. Diventava dunque impossibile comunicare fra di loro. Il suono dei “tambores” però era riconosciuto da tutti e tutte, così sono diventati presto lo strumento attraverso il quale “parlare” anche a distanza, per sentirsi meno soli e per sapere se intorno al proprio luogo di vita e lavoro ci fossero altri africani e africane.



Speaker e foto Bio Correndo!
Parco Dora, 3 dicembre 2023

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