Conquistare Boston! Per l'ultima settimana e nei giorni imminenti avevamo pensato a dei pezzi sullo stato emotivo e sull'evento nel suo complesso nei giorni precedenti all'evento.
L'avvicinamento non è stato possibile, allora ecco che emerge una Boston Marathon 2011, quella di Alberto Spina, l'allenatore della Bio Correndo AVIS. Non lo scopro oggi eccellente nel raccontare e scrivere. A voi:
E’ andata! Sono riuscito a finire Boston in 2h59’11!
Sono abbastanza soddisfatto visto e considerato che il 27
di marzo mi ero procurato una contrattura al polpaccio alla Susa-Avigliana (1h55’ per 29,2 km in leggera discesa) e sono stato fermo 10 gg facendo Tecarterapia quasi tutti i giorni e dopo non ho mai superato i 40’ senza mai forzare per paura di mandare tutto all’aria.
Prima della partenza stavo da schifo, il fuso orario non
ancora smaltito, la cucina non proprio mediterranea, il senso di colpa per non essere riuscito a correre nelle ultime tre settimane, la paura per il polpaccio; se ci
fosse stato un aereo l’avrei preso per tornare a casa. Poi man mano che si avvicinava
l’ora del via la condizione sembrava tornare. Anche mentalmente ero sempre più tranquillo e consapevole che a 48 anni con quello che riesco ad allenarmi (max 4 volte alla settimana e non avendo mai superato i 250 km al mese) non dovevo dimostrare niente a nessuno.
Man mano che mi avvicinavo al mio recinto di partenza (
n°1701 partivo nella prima wave, 2° corral, subito dietro a quello “dei pro”) mi accorgevo che l’età
media dei miei compari si abbassava, i fisici erano sempre più tonici e i profili
sempre più affilati e “cattivi”. Stava per iniziare la “battaglia”, e, quando c’è da “battere” non mi tiro indietro.
Come avevo già fatto nelle precedenti maratone avevo
deciso di prendere i passaggi ad ogni miglio ma di non guardarli fino alla fine. Il riferimento che mi ero dato era l’orologio che avrebbe suonato ogni 14’15” ovvero l’ipotetico passo per due miglia. Se l’avessi rispettato avrei chiuso in 3h07, se fossi riuscito a “guadagnare” un miglio avrei chiuso sotto le 3h, il mio obiettivo. Finalmente si parte. All’inizio avevo le gambe un po’ pesanti, però giravano, e le ho lasciate girare.
Ho l’impressione di andare più forte del previsto, ma è
discesa. Passo le prime due miglia, il cronometro non suona! Panico, o sto andando piano o non l’ho impostato! Niente di tutto questo, è che il tifo della gente è così caloroso
che non l’ho sentito, e sarà così fino alla fine.
Capisco subito che non è una maratona come le
altre, ho troppa gente intorno. Ai lati della strada c’è una fila continua di persone che urla, batte le mani, mi da il cinque! Mi sono preparato
a tutto: alla distanza, al ritmo, al fatto che prima o poi il polpaccio si farà sentire, ma non a sto casino. Me ne frego e vado avanti a sensazione
godendomi lo spettacolo. All’inizio rispondo ad ogni incitamento e do il cinque a tutti i bambini, poi capisco che così non posso andare lontano, già mi fa un po’ male
la spalla e così decido di salutare solo un bambino per paese e rispondere solo
a chi riconosce che sono italiano.
Al 10° km passo sotto i 39’. Vabbè che è discesa ma sono
partito un po’ veloce. Rallento? Neanche per sogno, quando mi ricapita di correre a Boston? Alla mezza passo in 1h22’ poco più lento di quanto fatto alla mezza di Vigevano. L’obiettivo è passare il Wessley College poi qualche santo
provvederà. Detto fatto. Al 25° si sveglia il polaccio, e finisce la discesa, perché le disgrazie non vengono mai da sole. Passo al 30° poco sopra le due ore ma comincio a correre sempre peggio e “storto”, anche la stanchezza inizia a
farsi sentire ma se riesco a correre almeno a 5’ al km è fatta. Ormai corro solo di cosce, faccio più fatica in discesa che non in salita, Un paio di volte
mi metto a camminare ma puntualmente mi si avvicina uno spettatore e mi urla “Don’t give up!” E io non givappo, e mi rimetto a correre. L’heartbreakhill, non è quel granché ma c’è più gente che all’Alpe d’Huez. Dopo inizia la discesa, i miei femori urlano, corro, anzi saltello, fino al 24° miglio, dove
c’è un sottopasso, da cui miracolosamente riesco ad uscire. Al ristoro bevo e mi fermo. L’addetto mi urla “good job” e io goodjobbo e riparto. L’ultimo km non lo racconto perché non ne sarei capace.
Taglio il traguardo, tutti gli addetti si congratulano,
“good job”, “good job”. Sì, sì, good job ma minchia che male al polpaccio, e poi in mezzo a sta baraonda come faccio a vedere Laura? E invece alzo gli occhi e la vedo,
meno male perché “suonato” come sono non riuscirei a trovare l’albergo. Il giorno seguente giro turistico al monumento principale della città: “il negozio di Bill Rodgers”. Lui non c’è, trovo invece una rampa di scale che affronto, non senza difficoltà, in stile Fosbury come tanti altri reduci dalla maratona . Laura è felice perché questo è l’ultimo atto di una storia che l’ha tormentata per qualche tempo (io dico mesi, lei sostiene anni).
Avrete capito che sono soddisfatto anche se un po’ di rammarico per il finale rimane. Potevo partire più piano ma va bene lo stesso. Erano vent’anni che sognavo di correre a Boston e me la sono giocata.
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