Anche
se sono ormai molti mesi che, per vari motivi, non corro e non frequento i
campi di gara cerco di tenermi informato tramite web sulle vicende podistiche
locali.
Quando recentemente ho letto della querelle sull'attaccamento ai
colori sociali, alla maglia e la partecipazione a gare per la società di
appartenenza, naturale mi è tornato il ricordo di un episodio di molti anni fa
che brevemente descrivo a significare il mio pensiero in argomento.
Ho
sempre amato l’atletica e, fin da ragazzino (come
tutti quelli della mia generazione) cercavo di imitare le gesta dei campioni
viste in tv organizzando mini olimpiadi in cortile e provando a esercitarmi
in quel nuovo stile a gambero di salto
in alto in una piccola palestra rischiando spesso l’osso del collo nell’atterraggio su mini materassini da ginnastica. Così
quando finalmente nel 1978 venne inaugurata dopo molti ritardi la pista di
Mombarone fu inevitabile per tutti noi tesserarci per la nuova società ATA
(Acqui TermeAtletica) e seguire le indicazioni del mitico prof.Pierino Sburlati
che era anche nostro insegnante di educazione fisica al liceo. La sua carica,
la sua voglia di spingerci a fare “attività” come lui amava dire ci portava a spaziare dai salti ai
lanci, dalle corse alla marcia. Finalmente potevo saltare su veri sacconi e
arrampicarmi fino al metro e settanta e gareggiar a livello provinciale e
regionale con tanta volontà ma anche poca preparazione, visto che i pochi
allenatori dell’epoca preferivano rivolgere l’attenzione agli ostacolisti e ai lanciatori. Lo stesso prof Pierino non era molto convinto
della bontà del fosbury flop e ci proponeva allenamenti un po’strani, retaggio forse dei salti della baionetta o del
cerchio infuocato di tempi passati (come noi scherzosamente gli ricordavamo)
Così, sia per i pochi compagni di allenamento e le traumatiche gare a livello
regionale (spesso la misura d’entrata era il nostro record personale…) che per i motivi di studio abbandonai la disciplina e
passai alla corsa.
Iniziai
a fare gli 800 e i 1500 m e a provare le prime ripeute su pista che iniziavano
quasi sempre vicino ai monumentali ritti del salto con l’asta e quei sacconi immacolati dopo le prime gare e,
ormai, terreno di conquista per bimbi fatti entrare da mamme con passeggino al
seguito.
A
dire il vero in quei primi anni mi era balenata l’idea di provare a fare una gara di decathlon ma la
mancanza di un’asta nel magazzino per allenarmi mi
aveva fatto presto desistere.
Cominciava
allora una modesta ma meritoria attività podistica con quella gloriosa canotta
bianco e verde. Ricordo ancora le prime gare quando il prof tirava fuori dal
bagagliaio dell’auto quelle canottiere spesso extra
large e di cotone pesante, tanto utili d’inverno quanto pesanti d’estate. Di tute non se ne parlava e quando al prof (in
quegli anni main sponsor, fornitore tecnico, economo ecc.) si chiedeva di adottare altri tessuti la
risposta era la solita “una
canottiera nuova non fa correre più veloci…”
Qualcosa
poi cambiò con l’arrivo dei primi sponsor
(Tagliaferro, Fin.a, Otb piscine, Lizea..) e l’abbigliamento divenne un po’ più tecnico. In ogni caso, anche se non nelle prime
posizioni, quelle divise prima verdi, poi gialle e poi bianco verdi erano
spesso presenti sulle piste del Piemonte e, da parte mia, anche alla partenza
di molte maratone e corse su strada. Il fatto comunque di essere l’unica società della provincia a fare gare regionali di
cross ci riempiva un po’
di orgoglio e compensava i distacchi e i doppiaggi che ci rifilavano atleti che
oggi vincerebbero senza troppa fatica le gare nostrane.
Qualche
anno dopo (1997 n.d.r.) al termine di un allenamento, in fase di cazzeggio, al
vulcanico prof. venne in mente un’ idea per tutti un po’ ambiziosa: “ e se provassimo a fare i campionati di società
piemontesi?” Erano anni che nessuna società
alessandrina assai più titolata della nostra si cimentava in quella che era una
vera e propria impresa, soprattutto per il fatto che noi non avevamo
specialisti n grado di ricoprire tutte le gare. Per alcuni di noi era ancora
vivo il ricordo traumatico di rovinose cadute nei 110hs o il mancato
raggiungimento della sabbia nel triplo per la eccessiva lontananza dall’asse di battuta e poi c’era anche lo spauracchio del salto con l’asta da coprire. Ad Acqui mai nessuno ci aveva provato e
i sacconi ormai erano quasi marci per l’esposizione continua all’aperto.
Su un foglio di carta a quadretti tra la
cenere dell’eterna sigaretta del prof e una
macchia di caffè venne impostata una prima lista di…volontari pronti a immolarsi per la causa. Io avevo
scelto i 3000 e, in seconda battuta, il salto in alto (bene o male 1.50/1,60
pensavo di riuscire ancora a farlo) Alla
ricerca del candidato per l’asta tutti facevano gli gnorri e nessuno si esponeva..Il
giorno dopo al campo vedo il Prof. che mi punta e a 30 metri di distanza
esordisce:”Zucca per caso non è che ti
piacerebbe provare a fare il salto con l’asta? bastano anche due metri e poi tu hai sempre fatto
salto in alto…” Professore ma non c’è nemmeno un’asta nel magazzino…”risposi come
scusa.Dopo qualche ora me lo vedo
arrivare con... una pertica a metà tra canna di bambù e palo di una vigna,
forse cimelio della sua attività giovanile.. Sotto la sua visione provo qualche
rincorsa, un tentativo d’imbucata,
ma la rigidità dell’attrezzo
e anche una inconscia paura dopo aver visto in una gara spezzarsi l’asta mi bloccano. Tento nei giorni seguenti ma non c’era verso di farmi entrare nella testa i meccanismi del
gesto; compresa la mia difficoltà al prof viene in mente un’escamotage:”al giudice diremo che poco prima di arrivare a Torino
hai lasciato distrattamente la mano nella portiera dell’auto e sei impossibilitato a gareggiare:importante è
presentarsi in pedana e tentare il salto, la gara è coperta anche con 0 punti.”
Così
facciamo. A me scappava un po’ da ridere per quella sceneggiata che avrei dovuto
interpretare all’età di 37 anni e i litri di tintura
di iodio che mi stavano versando e il voluminoso e artigianale bendaggio.
Giunti
al Ruffini il prof spiega l’antefatto al giudice che mi guarda con comprensione. Mi
faccio prestare un’asta da un concorrente e provo i
tre salti d’entrata accentuando la smorfia di
dolore al momento dell’impugnatura.
A dire il vero quando ho sentito nell’imbucata l’elasticità dell’asta ho pensato: “certo che se ad Acqui avessi avuto un simile attrezzo
magari riuscivo a fare una bella figura..”.
Inutile
dire che nel tragitto verso casa si parlava più della mia interpretazione da
premio Oscar che della gare degli altri:per tutti ero diventato Paul Bubka!
L’indomani sono alla partenza dei 3000 senza fasciatura e
con ancora un po’di tintura rossa sul polso. Corro
abbastanza bene in 10.35 e dò il mio effettivo contributo in punti alla
squadra. All’arrivo ritrovo il giudice del
giorno prima che mi guarda tra lo stupito e l’incredulo e bonariamente mi dice “oggi per correre la mano non ti serviva…bravo lo stesso!” e mi strizza l’occhiolino, in segno d’intesa.
Al
termine di quella "due giorni" riusciamo a entrare in classifica
unica società presente della provincia e rendiamo orgoglioso il professore che
si pavoneggia con gli allenatori di squadre assai più blasonate della regione. Di quei
pomeriggi conserverò il ricordo non dell’asta ma l’immagine di quell’uomo ultrasettantenne con la perenne sigaretta tra le
labbra, la cravatta svolazzante e le maniche di camicia rimboccate (come un
coach di campus americano) che spaziava per tutta la pista a incitare i suoi
ragazzi con il cronometro in mano e annotare su miriadi di foglietti tempi e
misure, sempre cancellati e aggiornati. Era fiero per essere riuscito a portare
un gruppo un po’ sgangherato di Amici di una
piccola società di provincia a competere con i club più titolati della regione.
Non ricordo più il piazzamento finale (magari mi aiuterà Matteo nella ricerca
negli archivi) ma questo conta poco e, alla fine, anche io ero soddisfatto per
il mio ruolo da chioccia e per essere stato il classico esempio di “attaccamento ai colori sociali”.
Molti
anni più tardi mi sarei ritrovato (mio malgrado) in una situazione simile:per i
postumi di un serio infortunio muscolare avevo rinunciato a correre una
frazione della 24x1ora di Asti, ma mi ero offerto a sistemare gazebo e zona
assistenza quando venni informato dell’improvvisa indisposizione di un collega a coprire il
turno delle 5 del mattino (!?!) Per non vanificare lo sforzo di altri 23
compagni ero intervenuto a tamponare quel buco anche se sapevo che il freddo
dell’alba avrebbe potuto peggiorare la
mia già precaria condizione a pochi giorni dalla partenza per la maratona di
Londra.
Ecco,
penso che lo spirito di appartenenza ad una società va al di là di una canotta
o di una gara vinta o la bella foto pubblicata sul gazzettino locale.E' una
cosa che si ha dentro: che ti fa stringere i denti anche se hai la bua, perchè
in quelle poche occasioni che si fa un gruppo ognuno da il suo contributo, che
ti fa spostare delle casse nella gara sociale senza che te lo dicano,che ti far
dir bugie quando vedi arrancare un amico dicendogli che corre bene e ti fa
portare borracce quando vedi che qualcuno è in difficoltà. Partecipando alla “colli novesi” o alla mezza di ottobre ritrovo questo spirito di
appartenenza negli amici dell’atletica Novese. Tutti sono a disposizione: dagli
anziani che consegnano i pettorali ai giovanissimi pronti a incitarti mentre ti
passano un bicchiere al ristoro e qualcuno , dopo aver spostato transenne,
riesce persino a gareggiare. Ormai son oltre 30 anni che frequento l’ambiente e ho visto (non solo a livello locale) strane
migrazioni di massa, colleghi che cambiano periodicamente club adducendo spesso
giustificazioni puerili o commentando la scelta con inutili toni polemici. Non
discuto mai una scelta personale (se coerente con il proprio modus vivendi) ma
alcune volte mi vien da sorridere pensando al nostro livello amatoriale e all’essenza di uno sport prevalentemente individuale e
allora prendo a prestito una frase di J:F.Kennedy per concludere queste mie
considerazioni: “Non chiederti cosa può fare il tuo
Paese (ndr nel nostro caso la “società) per te ma chiediti cosa puoi far tu per il tuo
paese…”
paolo zucca
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