Quando mi chiedono “Perché corri?” – un evento piuttosto raro, in realtà – la mia prima impressione è in genere che il mio interlocutore non riesca proprio ad immaginare come un’attività tanto faticosa, dolorosa ed usurante possa provocare piacere.
Sotto questo aspetto i parenti stretti (genitori, suoceri, fratelli e sorelle) sono un vero e proprio tormento: mi vedono eccessivamente magro, con la faccia “tirata” ed il fisico segnato dai tipici indizi di una malattia imminente.
Certamente la loro percezione è in una qualche misura distorta, ma alzi la mano il podista che alzandosi al mattino pieno di doloretti più o meno invalidanti (ah, i miei attacchi di pubalgia!) o che si ferma a vomitare dietro la siepe durante un allenamento “tirato” non si sia domandato “Ma chi me lo fa fare?”
Già, chi me lo fa fare?
Si, certo, esiste una ormai ampia letteratura medica e giornalistica che assicura che l’attività fisica aerobica – e la corsa ne è un tipico esempio – fa bene alla salute, mantiene giovani ed allunga la vita. D’altra parte, esistono anche autori che hanno statisticamente messo in relazione la corsa con la morte improvvisa, la progressiva usura delle cartilagini delle ginocchia (con conseguente impossibilità di deambulazione e necessità di ricorrere a carrozzine elettriche) e una certa predisposizione a collezionare figure di merda in pubblico. Naturalmente si tratta di una parte assai modesta della comunità scientifica e che quindi non considero attendibile e, tuttavia, ciò non basta a dissolvere i dubbi che tendono a condurti verso una domanda schiacciante: “Chi me lo fa fare?”
Se devo essere onesto verso me stesso, devo dire che le motivazioni che mi hanno condotto e continuano a condurmi a correre sono cambiate molte volte nel corso della mia vita ed hanno poco a vedere con la poesia del gesto atletico o dell’attività fisica in ambienti naturali di grande bellezza (vivendo io in Padania, terra dalle “magnifiche sorti e progressive” – Leopardi o Salvini? – ma piena di umidità e di zanzare). Proverò ad elencarle.
Prima di iniziare a “competere” già correvo da molti anni, in parte come attività accessoria dello sport che ho sempre praticato (il calcio) e in parte perché, tendendo a prendere peso, nei mesi estivi mi mantenevo “in forma” corricchiando di tanto in tanto.
Poi ho smesso di giocare a calcio ed ho cominciato a prendere peso e questo è successo fino al giorno in cui mi sono ripromesso di mantenere un aspetto fisico almeno in linea con le mie aspettative (in verità, non so se fossero troppo basse o troppo elevate): ciò ha implicato che affrontassi l’attività podistica con maggiore disciplina, anche se con uno spirito dilettantistico immutato… se ripenso oggi agli “allenamenti” del tempo viene da sorridere, ma mi bastava ed avanzava anche.
Il punto di svolta è stato quando, ho cominciato a conoscere amici che praticavano il podismo un po’ più seriamente e che mi hanno proposto di fare alcune gare con loro. Credo che un essere umano che prenda una decisione di questo genere dovrebbe conoscere le conseguenze cui va incontro. Perché non conosco nessuno che, infilati pantaloncini e canotta sociale, non si sia trasformato in un individuo assatanato di tempi al chilometro, allenamenti progressivi o addirittura ripetute (nei casi più estremi si desidera perfino l’annientamento fisico dell’avversario di giornata). Ho potuto notare che ciò avviene, in genere, anche per podisti senza alcuna ambizione cronometrica o di classifica e a mio avviso ciò è dovuto al fatto che i primi chilometri da podista competitivo rappresentano un po’ il migliore dei mondi possibili: ti impegni in allenamento e poi in gara verifichi che i tuoi progressi sono reali, che continui a migliorare, ad andare più forte e a scalare posizioni di classifica; così sei incentivato ad allenarti ancora di più ed ottieni risultati ancora migliori… sembra che questa tendenza non possa mai arrestarsi e sei felice, come un bambino con il suo giocattolo preferito.
Ma tutte le cose belle hanno una fine – anche quelle brutte a dir la verità, ma questo non è poi così negativo – ed i progressi incontrano limiti dovuti principalmente alla nostra struttura genetica ovvero all’invecchiamento fisico. Ti ritrovi un gennaio di un anno X (sempre a gennaio si fanno i bilanci) che vai più piano del gennaio dell’anno prima: “Come è possibile?” ti chiedi con l’espressione assente del calciatore che ha spedito la palla in tribuna a un metro dalla porta, “Mi sono allenato più duramente dell’altr’anno e vado più piano?”. Sembra difficile da comprendere, ma quel momento arriva sempre e il podista si trova di fronte al classico dubbio del salumiere: “Che faccio? Lascio?” Naturalmente, nel 90% dei casi non si lascia, ma occorre darsi nuove motivazioni che sono molto diverse da individuo ad individuo e generalmente vanno dalla volontà di fare qualcosa per la propria salute alla necessità di mantenersi in buona efficienza fisica (contrastando quindi il peggioramento della prestazione) o anche alla possibilità che questa attività ti offre per conoscere nuovi luoghi, usanze, persone interessanti, ecc.
Sono tutte motivazioni che – almeno in parte – mi motivano a continuare a correre ma che, nel mio caso, sono per lo più false: corro ancora perché mi piace e non potrei farne a meno, non sarei capace di rinunciare a dieci allenamenti faticosi per una gara vincente, che faccio in quei dieci giorni che mi separano dalla vittoria? Credo che abbia ragione Giorgio Belloni quando dice “correre, per me, è ormai uno stile di vita”… e a chi mi dice che scegliersi Giorgio Belloni come maestro di vita non è poi questa gran cosa, io rispondo che a me va bene così.
Post Scriptum
Questa la mia esperienza, ma trovo assai
interessanti anche altre motivazioni che ci fanno capire come questo mondo sia
meravigliosamente “avariato”, come direbbe il Poeta (Totò).
Quello che il rimorchio… l’ambiente podistico è un mondo straordinariamente promiscuo,
soprattutto in estate quando pantaloncini cortissimi, toppini, atleti che – al
termine della gara - si tolgono la maglietta mostrando pettorali gonfi al punto
da sembrare che stiano per scoppiare e, soprattutto, tanto sudore lasciano
immaginare – chissà poi perché – che la vita con il tuo compagno di corsa
potrebbe essere migliore di quella che stai attualmente conducendo. Quanti
corteggiamenti, tradimenti, fidanzamenti e matrimoni nel mondo della corsa: si
potrebbe scriverne un libro.
Quello che il trail… è ricco sfondato, va vestito con capi tecnici da 200€, con scarpe da
trailer da 300€ e con gli occhiali da sole (li porta perché è ricco sfondato e
va in giro con capi tecnici e scarpe da trailer che costano varie centinaia di
euri e quindi non parla con tutti gli altri, solo con quelli che gli
somigliano… gli occhiali da sole gli fanno da “filtro”). Fa i trail perché non
c’è niente di più bello che correre nella natura, oltrepassare i propri limiti
e arrampicarsi – anche con le mani – su salite dalle pendenze impossibili,
proprio come caprette di montagna delle quali il trailer si onora di imitare lo
stile di corsa.
Quello che il doping… è una farmacia ambulante e se gli fai l’antidoping rischi di
trovargli addosso contemporaneamente Darbepoetina alfa, Betametasone,
Anastrozolo, Testosterone non endogeno (non sto scherzando, sono le quattro
sostanze dopanti rilevate ad un triatleta-podista nell’aprile del 2014). Può
essere ricco o povero, ciò che è importante per lui è che sia riconosciuto
socialmente come un vincitore. Anche lui porta gli occhiali da sole, ma in
questo caso per non farsi “sgamare” che ha le pupille dilatate.
Il bello è che tutte queste categorie possono essere presenti anche in un solo individuo… Giorgio ci farebbe una risata su!
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