Quando
si è raffreddati non si deve correre, me lo diceva sempre mia mamma e aveva
ragione. Ma a volte il cuore e la passione spingono a fare cose che la logica e
la ragione non condividono. Nell’inverno
1987 avevo disputato sei campestri provinciali, del Trofeo Cross, piazzandomi
sempre tra il quarto e il settimo posto della categoria am30-35.
Ero abbastanza allenato e in forma e ci tenevo a fare una bella gara al campionato italiano amatori in programma a Borgaretto, cittadina alle porte di Torino, il 15 marzo.
Era l’ultima campestre dell’anno e volevo soprattutto sfidare un avversario col quale avevo perso 5 delle sei gare fatte. Lo avevo battuto solo al provinciale individuale ad Acqui Terme il 1 marzo, gara in cui ero giunto quarto. Ero pronto per Borgaretto e la sera prima, uscendo con gli amici, ero fiducioso di poter fare una bella gara. Al festival di Sanremo avevano vinto Tozzi-Ruggieri e Morandi con la canzone “si può dare di più” che mi era rimasta in mente. Ma la mattina al risveglio la brutta sorpresa era che mi ero preso un bel raffreddore. Avevo mal di gola, mi sentivo fiacco e senza energie, nemmeno a parlarne di fare una campestre di 7,4 km. a Torino. Era una mattina di sole, la borsa era li pronta, e guardavo l’alba sorgere con tutta la delusione possibile. Non avrei potuto correre. In questi casi si combatte una battaglia interiore tra il buon senso e la passione. Avevo voglia di fare quella gara. Ma capivo che non era una scelta intelligente. Mi alzai e andai in bagno, non so cosa mi fece decidere ma pensai chiaramente “vado solo a vedere, non corro”. Oggettivamente era una stupidaggine, dovevo starmene a casa al caldo. Invece così feci e mi portai la borsa perché “avevo dentro il pranzo già pronto” (due toast al prosciutto). A chi volevo darla a bere ? Ma così convinto andai al luogo del ritrovo, in piazza San Simone dove splendeva un bel sole, anche se non faceva per nulla caldo. Eravamo diversi della mia società, con ambizioni di buon piazzamento alcuni. Tra questi il mio rivale di categoria, molto motivato e forse sicuro di battermi visto l’andamento stagionale. Quando seppe che non correvo anche lui manifestò delusione. Arrivammo a Borgaretto presto, il campo di gara era molto bello e stimolante. Io guardavo e dentro soffrivo. Poi un amico di Ivrea mi disse “perché non ti cambi ?” E quella frase fece scattare un meccanismo in me. Tra me dissi “perché non mi cambio ?”. Trovai un ripostiglio, pieno di detersivi, nella scuola dove c’erano le conferme per le iscrizioni. E in quella stanza mi cambiai e decisi che avrei corso. La nostra gara partiva alle 12,00 e mentre mi scaldavo sentivo qualche brivido, ma non gli davo peso. Il giro era di 2450 metri da fare tre volte, e mentre lo facevo in riscaldamento la voglia di gareggiare aumentava e la motivazione anche. Ogni tanto mi chiedevo se non stavo facevo una belinata, ma qualcosa in me scacciava ogni paura. Era la voglia di gara e competizione. Al via eravamo oltre 300 concorrenti per la categoria Am30, e io ero in fondo al gruppo col mio amico Bruno, a chiudere la fila, perché proprio in quel momento non avevo alcuna ambizione se non finire. Ma al primo passaggio del boschetto cominciai a superare avversari e continuai così tutta la gara, con in mente “si può dare di più”. Al primo giro gli amici mi dicono che ho impiegato 9’16” e che ho 1’30” di distacco dal mio compagno di squadra. Continuo a spingere stimolato dai sorpassi, sento le gambe leggere e le chiodate Puma Winnipeg mordono il terreno con rabbia. Non penso a nulla se non a sorpassare. Al secondo giro (4,9 km. circa) passo in 18’18” e Enrico mi dice “stai guadagnando, lo stai riprendendo, sei 126esimo”. Mi accorgo che il mio rivale ha poco più di 100 metri di vantaggio e che io sono ancora in spinta. La mia ambizione alla vigilia era entrare nei primi 100 e non è impossibile passare ancora 26 avversari. Ne vedo parecchi piantati, soprattutto sulla collinetta ne supero a raffica, sempre con quella canzone in mente. A circa 1,5 km. dalla fine raggiungo il mio rivale e lo passo di slancio, di li in avanti ho ancora forza per superare altri 10 atleti e finire ancora in piena spinta. Passo il traguardo e guardo in alto, ringrazio chi da lassù mi ha regalato quell’insperata corsa, solo 3 ore prima ero certo di non poter nemmeno correre. Vado a bere qualcosa di caldo e poi a cambiarmi. Non sento nulla, tutto sembra perfetto. Le gare finiscono e vengono messe fuori le classifiche, io sono 80esimo col tempo di 26.50 e una media di 3’37” al km. Ho fatto i tre giri in 9.16 – 9.02 – 9.32 e mi sembrava si aumentare alla fine vedendo gli altri piantati e in crisi. Il mio rivale è 87 in 26.58 e questa sfida mi ha dato maggiori stimoli. Nel primo pomeriggio ripartiamo e sento dei brividi. A casa misuro la febbre che è 38,5 e quindi la mia bravata mi costerà una bella influenza. Ma quella corsa che non dovevo fare resta memorabile, indimenticabile. E ogni volta che sono raffreddato, con le gambe molli e senza energie mi ricordo di quei 7,4 km. di campi, prati, boschetti e collinette nella periferia torinese, una soleggiata ma fredda domenica di fine inverno 1987. In cui ho scoperto che a volte “si può dare di più”.
Ero abbastanza allenato e in forma e ci tenevo a fare una bella gara al campionato italiano amatori in programma a Borgaretto, cittadina alle porte di Torino, il 15 marzo.
Era l’ultima campestre dell’anno e volevo soprattutto sfidare un avversario col quale avevo perso 5 delle sei gare fatte. Lo avevo battuto solo al provinciale individuale ad Acqui Terme il 1 marzo, gara in cui ero giunto quarto. Ero pronto per Borgaretto e la sera prima, uscendo con gli amici, ero fiducioso di poter fare una bella gara. Al festival di Sanremo avevano vinto Tozzi-Ruggieri e Morandi con la canzone “si può dare di più” che mi era rimasta in mente. Ma la mattina al risveglio la brutta sorpresa era che mi ero preso un bel raffreddore. Avevo mal di gola, mi sentivo fiacco e senza energie, nemmeno a parlarne di fare una campestre di 7,4 km. a Torino. Era una mattina di sole, la borsa era li pronta, e guardavo l’alba sorgere con tutta la delusione possibile. Non avrei potuto correre. In questi casi si combatte una battaglia interiore tra il buon senso e la passione. Avevo voglia di fare quella gara. Ma capivo che non era una scelta intelligente. Mi alzai e andai in bagno, non so cosa mi fece decidere ma pensai chiaramente “vado solo a vedere, non corro”. Oggettivamente era una stupidaggine, dovevo starmene a casa al caldo. Invece così feci e mi portai la borsa perché “avevo dentro il pranzo già pronto” (due toast al prosciutto). A chi volevo darla a bere ? Ma così convinto andai al luogo del ritrovo, in piazza San Simone dove splendeva un bel sole, anche se non faceva per nulla caldo. Eravamo diversi della mia società, con ambizioni di buon piazzamento alcuni. Tra questi il mio rivale di categoria, molto motivato e forse sicuro di battermi visto l’andamento stagionale. Quando seppe che non correvo anche lui manifestò delusione. Arrivammo a Borgaretto presto, il campo di gara era molto bello e stimolante. Io guardavo e dentro soffrivo. Poi un amico di Ivrea mi disse “perché non ti cambi ?” E quella frase fece scattare un meccanismo in me. Tra me dissi “perché non mi cambio ?”. Trovai un ripostiglio, pieno di detersivi, nella scuola dove c’erano le conferme per le iscrizioni. E in quella stanza mi cambiai e decisi che avrei corso. La nostra gara partiva alle 12,00 e mentre mi scaldavo sentivo qualche brivido, ma non gli davo peso. Il giro era di 2450 metri da fare tre volte, e mentre lo facevo in riscaldamento la voglia di gareggiare aumentava e la motivazione anche. Ogni tanto mi chiedevo se non stavo facevo una belinata, ma qualcosa in me scacciava ogni paura. Era la voglia di gara e competizione. Al via eravamo oltre 300 concorrenti per la categoria Am30, e io ero in fondo al gruppo col mio amico Bruno, a chiudere la fila, perché proprio in quel momento non avevo alcuna ambizione se non finire. Ma al primo passaggio del boschetto cominciai a superare avversari e continuai così tutta la gara, con in mente “si può dare di più”. Al primo giro gli amici mi dicono che ho impiegato 9’16” e che ho 1’30” di distacco dal mio compagno di squadra. Continuo a spingere stimolato dai sorpassi, sento le gambe leggere e le chiodate Puma Winnipeg mordono il terreno con rabbia. Non penso a nulla se non a sorpassare. Al secondo giro (4,9 km. circa) passo in 18’18” e Enrico mi dice “stai guadagnando, lo stai riprendendo, sei 126esimo”. Mi accorgo che il mio rivale ha poco più di 100 metri di vantaggio e che io sono ancora in spinta. La mia ambizione alla vigilia era entrare nei primi 100 e non è impossibile passare ancora 26 avversari. Ne vedo parecchi piantati, soprattutto sulla collinetta ne supero a raffica, sempre con quella canzone in mente. A circa 1,5 km. dalla fine raggiungo il mio rivale e lo passo di slancio, di li in avanti ho ancora forza per superare altri 10 atleti e finire ancora in piena spinta. Passo il traguardo e guardo in alto, ringrazio chi da lassù mi ha regalato quell’insperata corsa, solo 3 ore prima ero certo di non poter nemmeno correre. Vado a bere qualcosa di caldo e poi a cambiarmi. Non sento nulla, tutto sembra perfetto. Le gare finiscono e vengono messe fuori le classifiche, io sono 80esimo col tempo di 26.50 e una media di 3’37” al km. Ho fatto i tre giri in 9.16 – 9.02 – 9.32 e mi sembrava si aumentare alla fine vedendo gli altri piantati e in crisi. Il mio rivale è 87 in 26.58 e questa sfida mi ha dato maggiori stimoli. Nel primo pomeriggio ripartiamo e sento dei brividi. A casa misuro la febbre che è 38,5 e quindi la mia bravata mi costerà una bella influenza. Ma quella corsa che non dovevo fare resta memorabile, indimenticabile. E ogni volta che sono raffreddato, con le gambe molli e senza energie mi ricordo di quei 7,4 km. di campi, prati, boschetti e collinette nella periferia torinese, una soleggiata ma fredda domenica di fine inverno 1987. In cui ho scoperto che a volte “si può dare di più”.
Matteo Piombo (Borgaretto 1987)
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